DICHIARAZIONE DELLA STAMPA Una delle cose di maggior consolazione ai buoni in questo misero e sciocco e presuntuoso mondo ci pare la riverenza sincera che hanno l'uno per l'altro gli uomini veramente grandi. E di questa abbiam creduto opportuno ricordare un esempio di due tra quanti mai furono grandissimi; e abbiamo voluto prenderlo da quel secolo decimosettimo, che noi crediamo forse unico in tutta la memoria umana, ad avere prodotto tanta copia insieme d'ingegni all'Italia, alla Francia, alla Germania, all'Inghilterra, alla Fiandra, all'Olanda, nel vero sapere propriamente giganti; e l'abbiam preso volentieri di due italiani, de' quali due niuna età, niun popolo ebbe i maggiori: ed abbiamo fatta visibile per figure l'affettuosa riverenza che a Paolo Sarpi veneziano portava Galileo Galilei fiorentino. E' famosa la grandezza dell'uno e dell'altro: e da lei viene l'amicizia; perché la vera grandezza non patisce l'invidia. Ne' mancò sì all'uno, sì all'altro la guerra dei vilissimi invidiosi. Ma i due sommi, che il sublime intelletto, l'amor del vero, la scienza, l'ammirazione del mondo, l'odio de' tristi congiunge, si onorano e si amano, perché non hanno cagione d'invidiarsi. Come un discepolo sta attento ed ossequioso innanzi al maestro, così il Galilei alla presenza del Sarpi. Galileo per soli dodici anni minore di età al padre Paolo; Galileo già professore nello studio padovano, dove lo immira il fiore della nobile gioventù italiana e della straniera, e tra essi un futuro re (e quel che è tanto più un futuro eroe) il principe reale degli Sveci, il destinato liberatore della Germania, Gustavo Adolfo; Galileo già celebrato nel mondo per le stupende novità da lui primo vedute nel cielo, per le trovate e dimostrate leggi del moto (fondamenti a tutta la scienza fisica); sta come scolare in piedi innanzi al Sarpi seduto. Colui che gli Olandesi ammirati invitano, e gli scienziati di Francia e di Germania riveriscono maestro, ascolta umilmente la sublime sapienza del frate, il quale nell' immenso intelletto accoglie tutta la scienza naturale e tutta la civile. A noi questo è il massimo argomento per la suprema grandezza del Sarpi; argomento di rara modestia nel Galilei; la quale è il più certo segno di rara grandezza. Né forse fu vano proporre questo memorando esempio al secolo nostro, alla cui piccolezza sì orgogliosa è incommensurabile la smisurata grandezza del Sarpi, e credibile appena la verecondia del grandissimo Galileo. |
Tra Galileo e fra' Paolo Sarpi vi fu un rapporto amichevole, per i comuni interessi scientifici.
Il Sarpi, che era nato a Venezia il 14 agosto 1552, mutò il suo nome Pietro in quello di Paolo quando vestì, giovanissimo, l'abito dei servi di Maria il 24 novembre 1566. Precoce negli studi, facilitato da una notevole memoria, di costumi e di vita intemerati, studiò oltre la teologia, anche la filosofia, la matematica, il greco e l'ebreo. Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova, lo nomina suo teologo nel 1570. Il Sarpi rimase a Mantova quattro anni e insegnando teologia positiva nel 1574 venne consacrato baccelliere in teologia. Divenne assistente del cardinale Carlo Borromeo a Milano. Tornò a Venezia nel 1579. Divenuto Provinciale dei Serviti, andò a Roma per studiare i decreti del Concilio Tridentino e lì fece amicizia con Roberto Bellarmino. Dal 1599 al 1604 fu vicario generale dell'Ordine. Tra Roma e Venezia erano sorte in quegli anni varie dispute che sfociarono nell'interdetto lanciato da Paolo V nel 1606, anno in cui Sarpi divenne teologo della Repubblica Veneta e subì un tentativo di assassinato per mano di sicari del Papa. Pubblico molte opere di carattere giurisdizionale e una Storia del Concilio di Trento. Mantenne corrispondenza con vari Protestanti, che gli mostrarono molta simpatia. Gli è stata attribuita la scoperta delle valvole delle vene ed alcuni lo fanno scopritore della circolazione sanguigna prima di W. Harvey. Morì nel 1623.
Importantissime le lettere scambiate tra Galileo e Paolo Sarpi, concernenti il moto verticale dei corpi. Esse sono l'incontrovertibile testimonianza che Galileo ha acquisito per via sperimentale, prima che per speculazione teorica, la dipendenza quadratica dal tempo del moto di caduta di un grave. Possiamo ritenere che queste prove di lanci verticali siano collegate non solo cronologicamente agli esperimenti di caduta realizzati su veicoli in moto uniforme, ma siano aspetti diversi di un'unica indagine che investe anche la problematica del moto della terra, facendo percepire concretamente come lo studio del moto locale e lo studio del sistema del mondo fossero intimamente uniti già nella mente di Galileo, senza dover per questo attendere Newton. La prima lettera è questa:
104. PAOLO SARPI a GALILEO in Padova. Venezia, 9 ottobre 1604. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. VII, car. 103. - Autografa. Ecc. mo Sig. re P.rone mio Oss. mo Con occasione d'inviarli l'allegata, m'è venuto pensiero di proporli un argomento da risolvere, et un problema che mi tiene ambiguo. Già habbiamo concluso, che nessun grave può essere tirrato all'istesso termine in su se non con una forza, et per consequente con una velocità. Siamo passati (così V. S. ultimamente affermò et inventò ella) che per li stessi termini tornerà in giù, per quali andò in su. Fu non so che obietione della palla dell'archibuggio: il fuoco qui intorbida la forza dell'istanza. Ma diciamo: un buon bracio, che tira una frecia con un arco turchesco, passa via totalmente una tavola; et se la freccia discenderà da quella altezza dove il braccio con l'arco la può trarre, farrà pochissima passata. Credo che l'instanza sii forse leggiera, ma non so che ci dire. Il problema: se saranno doi mobili di disugual specie, et una virtù minore di quello che sii capace, riceverà qual si voglia di loro; se comunicandosi la virtù a ambi dua, ne riceveranno ugualmente: come se l'oro fosse atto di ricevere dalla somma virtù 20 et non più, et l'argento 19 et non più, se sarrano mossi da virtù 12, se ambi dua riceveranno 12. Par di sì; perchè la virtù si comunica tutta, il mobile è capace, adonque l'effetto l'istesso. Par di no; perchè, adonque doi mobili di specie diversa, da ugual forza spenti, anderanno all'istesso termine con l'istessa velocità. Se un dicesse: La forza 12 muoverà l'argento et l'oro all'istesso termine non con la stessa velocità; perchè no? se ambi dua sono capaci anco di maggiore che quella qual 12 li può comunicare? Non obligo V. S. a risposta: solo per non mandar questa carta bianca, la quale haveva già appetito peripatetico d'essere impita di questi carateri, l'ho voluta contentare, come l'agente fa alla materia prima. Adonque qui farò fine: et li bascio la mano. Di Vinetia, il 9 Ottobre 1604.
Fuori: All'Ecc. mo Sig. re mio P.rone Osservan. o Il S. re Galileo Galilei, Matematico. Padova, alli Vignali del Santo.
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La risposta di Galileo contiene la prima enunciazione della legge di caduta dei gravi. La lettera fu acquistata dal prefetto della provincia di Pisa, Luigi Torelli, e da lui donata all'Università di Pisa nel 1864 in occasione del III centenario della nascita di Galileo. La lettera era esposta tra due vetri nella Biblioteca ed è attualmente in deposito alla Domus Galileiana di Pisa.
È stata pubblicata nel vol. X dell'edizione nazionale delle Opere di Galileo alle pp. 92-93. Ecco il testo:
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105. GALILEO a PAOLO SARPI in Venezia. Molto Rev. do Sig. re et Pad. ne Col. moRipensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell'evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate , et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto; come, v. g., cadendo il grave dal termine a per la linea abcd , suppongo che il grado di velocità che ha in c al grado di velocità che hebbe in b esser come la distanza ca alla distanza ba , et così conseguentemente in d haver grado di velocità maggiore che in c secondo che la distanza da è maggiore della ca . Haverò caro che V. S. molto R. da lo consideri un poco, et me ne dica il suo parere. Et se accettiamo questo principio, non pur dimostriamo, come ho detto, le altre conclusioni, ma credo che haviamo anco assai in mano per mostrare che il cadente naturale et il proietto violento passino per le medesime proporzioni di velocità. Imperò che se il proietto vien gettato dal termine d al termine a , è manifesto che nel punto d ha grado di impeto potente a spingerlo sino al termine a , et non più; et quando il medesimo proietto è in c , è chiaro che è congiunto con grado di impeto potente a spingerlo sino al medesimo termine a ; et parimente il grado d'impeto in b basta per spingerlo in a : onde è manifesto, l'impeto nei punti d , c , b andar decrescendo secondo le proporzioni delle linee da , ca , ba ; onde, se secondo le medesime va nella caduta naturale aqquistando gradi di velocità, è vero quanto ho detto et creduto sin qui. Quanto all'esperienza della freccia, credo che nel cadere aqquisterà pari forza a quella con che fu spinta, come con altri esempi parleremo a bocca, bisognandomi esser costà avanti Ognisanti. Intanto la prego a pensare un poco sopra il predetto principio. Quanto all'altro problema proposto da lei, credo che i medesimi mobili riceveranno ambedue la medesima virtù, la quale però non opererà in ambedue il medesimo effetto: come, v. g., il medesimo huomo, vogando, communica la sua virtù ad una gondola et ad una peotta, sendo l'una et l'altra capace anco di maggiore; ma non segue nell'una et nell'altra il medesimo effetto circa la velocità o distanza d'intervallo per lo quale si muovino. Scrivo al scuro: questo poco basti più per satisfare al debito della risposta che al debito della soluzione, rimettendomi a parlarne a bocca in breve. Et con ogni reverenza li bacio le mani. Di Padova, li 16 di Ottobre 1604.
Fuori: Al molto R. do Sig. re et Pad. ne Col. mo Il Padre M. ro Paolo da Venezia. Venezia, ne' Servi. |
Perfino la prima costruzione del cannocchiale vede Galileo in stretto rapporto col frate servita. Lo testimoniano queste lettere:
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233** GIOVANINI BARTOLI a BELISARIO VINTA in Firenze. Venezia, 29 agosto 1609. Arch. di Stato in Firenze. Filza Medicea 3001, n.° 64. - Autografa. ....Più di tutto quasi ha dato da discorrere questa settimana il S. re Galileo Galilei, Matematico di Padova, con l'inventione dell'occhiale o cannone da veder da lontano. Et si racconta che quel tale forestiero che venne qua col secreto, havendo inteso da non so chi (dicesi da Fra Paolo teologo servita) che non farebbe qui frutto alcuno, pretendendo 1000 zecchini, se ne partì senza tentare altro; sì che, essendo amici insieme Fra Paolo et il Galilei, et datogli conto del secreto veduto, dicono che esso Gallilei, con la mente et con l'aiuto d'un altro simile instrumento, ma non di tanto buona qualità, venuto di Francia, habbia investigato et trovato il secreto; et messolo in atto, con l'aura et favore d'alcuni senatori si sia acquistato da questi SS. ri augumento alle sue provisioni sino a 1000 fiorini l'anno, con obligo però, parmi, di servir nella sua lettura perpetuamente.... 272*. [PAOLO SARPI a GIACOMO LESCHASSIER]. Venezia, 16 marzo 1610. Bibl. Naz. in Parigi. Cod. lat. 8601 (già Colbertino 2832), car. 93 e 94. - Copia di mano sincrona. .... Scis, ante biennium repertum instrumentum in Batavis, quo res longinquae videntur, quae aliter vel non apparerent, vel obscure. Hoc invento noster Mathematicus Patavinus, et alii ex nostris earum artium non ignari, ad coelestia, uti cepere, et usu edocti magis accomodarunt et expolierunt. Constat, ut scis, instrumentum illud duobus perspicillis ( lunettes vos vocatis), sphaericis ambobus, altero superficiei convexae, altero concavae. Convexum accepimus ex sphaera, cuius diameter 6 pedum; concavum, ex alia, cuius diameter latitudine digiti minor. Ex his componitur instrumentum circiter 4 pedum longitudinis, per quod videtur tanta pars obiecti, quae, si recta visione inspiceretur, subtenderet scrupula 1. a 6; applicato vero instrumento, videtur sub angulo maiori quam 3 graduum. Ea observata sunt in luna, in Iovis stella et in fixarum costellationibus; quae tu leges in libello quem meo nomine D. Legatus tibi exhibebit, et plura alia miranda magis, de quibus tibi alias scribam. Interim ne mirere, videri stellas Iovem circumeuntes tam brevi intervallo. Namque oculo in Iove existente, distantia lunae a terra non excedit scrupula p. a 31, et ipsum lunae corpus non apparet maius scrupulis secundis 17. Ea si libuerit D. Aleaume communia facere, forte non illi erunt ingrata.... |
Molto significativa quest'ultima lettera di Galileo al frate servita
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476. GALILEO a PAOLO SARPI [in Venezia]. Firenze, 12 febbraio 1611. Riproduciamo questa lettera dall'edizione Padovana delle Opere di Galileo , Tomo II, pag. 558-560, nella quale venne per la prima volta pubblicata, senza indicazione della fonte da cui fu tratta. Molto Rev. Padre e mio Signore Colendissimo, È tempo che io rompa uno assai lungo silenzio; sebbene ove ha taciuto la lingua e quietato la mano, ha però continuamente parlato il pensiero, ricordevole in tutti i momenti della virtù e dei meriti di Vostra Sign. Molto Rev., siccome degli obblighi infiniti che gli tengo. Io non innarrerò perdono di questa mia apparente negligenza verso i debiti che ho seco, come quello che son sicuro che ella non dubiti che in qualunque occorrenza concernente al suo o mio bisogno avrei avuta la penna non meno pronta dell'animo e dell'effetto ad ogni debito dell'antica amicizia e della osservanza che ho alla sua persona. Ora, stimando io che ella, per l'affezione verso di me, sia per volentieri intendere dello stato mio, sì quanto al corpo come quanto alla fortuna e quanto alla mente, vengo non meno volentieri a darle di ciascheduno di questi particolari contezza. E prima, quanto al primo, non posso veramente dirle cosa nè di suo nè di mio gusto, provando, per il disuso di tanti anni, questa sottilissima aria iemale crudissima inimica alla mia testa ed a tutto il resto del corpo; sì che le doglie per le mie freddure, il profluvio del sangue, con una grandissima languidezza di stomaco, mi tengono da tre mesi in qua debole, disgustatissimo, melanconico, quasi continuamente in casa, anzi in letto, ma però senza sonno e quiete. Solamente li giorni passati, che mi trattenni, mentre la Corte era a Pisa, per lo spazio di tre settimane coll'Illustrissimo Signor Filippo Salviati, gentiluomo di grandissimo spirito, in una sua villa in questi poggi, stetti assai bene, e conobbi immediate la bontà di quell'aria, e in conseguenza la malignità di questa della città; sì che mi converrà far pensiero di farmi abitator dei monti, se no de' sepolcri: ed in questa occasione, ritornato il Serenissimo Gran Duca ed inteso il mio stato, mi ha per sua benignità fatto offerta dell'abitazione di qual mi piacesse delle sue ville qui circumvicine, di aria perfetta. Ma non solo in questo, anzi in ogni altro particolare concernente al mio comodo, provo la benignità di questo Signor inclinatissima a favorirmi: onde non devo della fortuna querelarmi, come dell'abito del corpo. Quanto alle occupazioni della mente, non mi è mancato che fare, a difendermi con la lingua e con la penna da infiniti contraddittori e oppositori contro alle mie osservazioni; sebbene non me la sono nè anco presa con quell'ardore che pareva a molti che contro all'ardire degli opponenti fusse bisognato, essendochè ero certo che il tempo averebbe chiarite tutte le partite, siccome in gran parte è sin qui succeduto. Poichè i matematici di maggior grido di diversi paesi, e di Roma in particolare, dopo essersi risi, ed in scrittura ed in voce, per lungo tempo e in tutte le occasioni e in tutti i luoghi, delle cose da me scritte, ed in particolare intorno alla luna ed ai Pianeti Medicei, finalmente, forzati dalla verità, mi hanno spontaneamente scritto, confessando ed ammettendo il tutto; talchè al presente non provo altri contrari che i Peripatetici, più parziali di Aristotele che egli medesimo non sarebbe, e sopra gli altri quelli di Padova, sopra i quali io veramente non spero vittoria. Queste occupazioni non mi hanno però interamente rimosso dalle inquisizioni celesti, sì che io non abbia potuto investigare qualche altra cosa di nuovo: di che devo far parte a V. S. molto R., e per lei a quei miei Signori e Padroni che ella sa che sono per sentirla volentieri. Parmi ricordare che sino l'Agosto passato io conferissi seco l'osservazione di Saturno: il quale non è altramente una sola stella, come gli altri pianeti, ma sono tre, congiunte insieme in linea retta parallela all'equinoziale; e stanno così , cioè la media circa quattro volte maggiore delle laterali, le quali sono tra di loro eguali. Non hanno, in sette mesi che le ho osservate, fatta mutazione alcuna; onde assolutamente sono tra di loro immobili, perchè (giacchè sono così vicine che pare che si tocchino) ogni moto che avessero, benchè minimo, si saria fatto sensibile. Perchè, per mio avviso, il diametro delle due minori non arriva a quattro secondi: sicchè, o si sariano totalmente congiunte con la media, o evidentemente separate, quando il lor moto fusse anco dieci volte più tardo di quello delle stelle fisse; tuttavia, come ho detto, in sette mesi non hanno fatto mutazione alcuna, se non di mostrarsi più piccole tutte tre per la maggiore lontananza dalla terra, ora che sono alla congiunzione, che quando erano all'opposizion del sole: la qual differenza è sensibilissima. Stimando pure esser verissimo che tutti i pianeti si volghino intorno al sole come centro dei loro orbi, e più credendo che siano tutti per sè tenebrosi ed opachi come la terra e la luna, mi posi, quattro mesi sono, a osservar Venere, la quale, essendo vespertina, mi si mostrò perfettamente rotonda, ma assai piccola; e di tal figura si mantenne molti giorni, crescendo però notabilmente in mole. Avvicinandosi poi alla medesima digressione, cominciò a sciemare dalla rotondità nella parte verso oriente, ed in pochi giorni si ridusse ad esser semicircolare; e di tal figura si mantenne circa un mese, senza vedersi altra mutazione che di mole, la quale notabilmente si accresceva. Finalmente nel ritirarsi verso il sole cominciò ad incavarsi dove era retta, ed a farsi pian piano corniculata: ed ora è ridotta in una sottilissima falce, simile alla luna quattriduana. La mole però della sua sfera è fatta tanto grande, che dalla sua prima apparizione, quando la veddi rotonda, a che si mostrò mezza ed a quello che si vede adesso, ci è la differenza che mostrano le tre presenti figureSciemerà ancora sino alla occultazione, ed a mezzo quest'altro mese la vederemo orientale, sottilissima; e seguitando di lontanarsi dal sole, crescendo di lume e sciemando di mole, nello spazio di tre mesi incirca si ridurrà a mezzo cerchio, e tale, senza conoscervi sensibile mutamento, si manterrà circa un mese; poi, seguitando sempre di sciemare in mole, si farà in pochi giorni interamente rotonda, della qual figura si mostrerà per più di dieci mesi continui, trattone quei tre mesi incirca che starà invisibile sotto i raggi del sole. Or eccoci fatti certi che Venere si volge intorno al sole, e non sotto (come credette Tolommeo), dove mai non si mostrerebbe se non minore di mezzo cerchio; nè meno sopra (come piacque ad Aristotele), perchè se fusse superiore al sole, non si vedrebbe mai falcata, ma sempre più di mezza assaissimo, e quasi sempre perfettamente rotonda. E l'istesse mutazioni son sicuro che vedremo fare a Mercurio. Perchè poi tali diversità di forme e di grandezze in Venere siano impercettibili con la vista naturale, so io benissimo per le sue cagioni non occulte all'ingegno di Vost. Riverenza: tra le quali la piccolezza e la gran lontananza di essa Venere, in comparazion della luna, ne è la principale, siccome anco l'esperienza ci mostra; perchè rivoltando il cannone sì che rappresenti gli oggetti piccoli e lontanissimi, la medesima luna, quando è corniculata di tre giorni e non più, ci apparisce rotonda e radiante, similissima a Venere veduta con la vista naturale. Siamo in oltre da queste medesime apparizioni di Venere fatti certi come i pianeti tutti ricevono il lume dal sole, essendo per lor natura tenebrosi. Ma io di più sono, per dimostrazione necessaria, sicurissimo che le stelle fisse sono per sè medesime lucidissime, nè hanno bisogno dell'irradiazione del sole; la quale Dio sa se arriva in tanta lontananza. Ho finalmente investigato il modo di poter sapere le vere grandezze dei pianeti tutti: nell'assegnar delle quali, trattone il sole e la luna, si sono ingannati quelli che ne hanno trattato, in tutti gli altri pianeti grandissimamente, ed in taluno di loro di più di seimila per cento. Quanto ai Pianeti Medicei, vo continuando di osservargli; ed avendo migliorato lo strumento, gli scorgo più apparenti assai che le stelle della seconda grandezza: di che ne è certo argomento il vedergli adesso poco dopo il tramontar del sole, ed un pezzo avanti che si scorghino i Gemelli o il Cingolo di Orione. E spero di aver trovato il modo da poter determinare i periodi di tutti quattro; cosa stimata per impossibile dal Keplero e da altri matematici. Io speravo di esser per venir costà questa quadragesima, per ristampar queste mie osservazioni: ma mi sono tanto multiplicate per le mani, che mi sarà forza indugiare a fatto Pasqua. Intanto non voglio mancar di dire a V. S. molto R. e all'Illustris. Sign. Sebastiano Veniero, che caso che gl'Illustriss. Signori Riformatori non abbino fin qui fatto provisione di Matematico per Padova, voglino proccurar di trattenergli; perchè spero di esser per metter loro per le mani persona di grande stima, ed atta a poter difendere la dignità ed eccellenza di così nobil professione contro a quelli che cercano di esterminarla, li quali in Padova non mancano, come benissimo sanno. E so che tali proccureranno che sia condotto qualche soggetto da poterlo dominare e spaventare, acciocchè se mai si scuopre qualche cosa vera e di garbo, ella resti dalla loro tirannide soffogata. Ma mi giova sperare nella prudenza di tanti che intendono in cotesto Senato, che non seguirà elezione se non ottima. Ora io l'ho impedita assai: perdoni al diletto che ho di parlar con lei; e volendo favorirmi di sue lettere, potrà mandarmele, come questa, sotto quell'Illustriss. Signor Veniero. Restami a pregarla di farmi grazia di ricordarmi servitore devotissimo a tanti Illustriss. miei Signori, dei quali vivo, come sempre fui, devotissimo servitore; e con ogni affetto gli bacio le mani. Di Firenze, li 12 di Febbraio 1610 [di stile fiorentino, quindi 1611].
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